IL QUARTO D’ORA ACCADEMICO
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di Giovanni Pellizzari

Non sono, pare, infrequenti i casi di musicisti che – temporaneamente – non potevano esibirsi per il terrore del pubblico, o che, pur esibendosi, sapevano di mancare di quella naturalezza che stupiva i propri amici e loro stessi quando suonavano per sé soli o per pochi intimi. Un caso illustre fu quello di Horowitz, il genero di Toscanini, lontano dalle sale dei concerti per molti anni. E accadde, definitivamente, per un altro mito della tastiera, Glenn Gould, anche se per lui , più che come panico da palcoscenico, il sintomo fobico si manifestava come nausea per la presenza del pubblico con la sua ripugnante fisicità. Ma chissà quanti casi del genere sarebbe pronto a rievocare il dotto e felice narratore Cesare Galla. Del resto, sala di concerto, palcoscenico o aula scolastica hanno non poco in comune: così fu celebre il caso di Wittgenstein, a Cambridge, il quale fu esentato dalle lezioni ordinarie; e da noi, meno noto, quello del più autorevole filologo classico del secondo Dopoguerra, Sebastiano Timpanaro, cui l’ansia inibì l’aula universitaria, ma non le lezioni in un istituto d’avviamento professionale di Pisa, dove evidentemente si sentiva più a suo agio. Del resto, è nota la balbuzie di Mosè, che, davanti al Faraone, si servì come interprete ed oratore di Aronne. Strano, per un uomo cresciuto nella corte egiziana. Ma il mito ha le sue ragioni.

Fino a ieri ignoravo che da un analogo “complesso” fosse affetto anche Tiberio Tonolli, il docente di piano del Canneti di Vicenza e al Pollini di Padova, e marito di Laura Lattes, luminosa figura di educatrice degnamente rievocata da Giovanna Dalla Pozza in una recente tornata dell’Accademia Olimpica. Per inciso, il suo nome ricorreva spesso in bocca a mia madre, che l’aveva avuta come — ammiratissima —insegnante all’istituto femminile di avviamento commerciale, allora, negli anni Trenta, ospitato a Santa Caterina. Non so se La canzone di Teodorico o altro repertorio carducciano che, figlio ormai quasi ottantenne, non ho cessato di amare e di rimormorarmi a tratti, non venisse proprio dalla voce della Lattes. Mi piace pensare che, nella recita di mia madre, la ballata del Re Goto prendesse accenti, ritmo, quell’icasticità affascinante, eco fedele della didattica della professoressa ebrea.

Ma la Lattes, nella geografia infantile di chi scrive, apparteneva ad altro mondo, rispetto all’Istituto Canneti, e ai suoi abitanti, dove bambino di sette anni fui ammesso a frequentare il corso di teoria e solfeggio. L’Istituto aveva sede allora nel Palazzo del Territorio, al primo piano. Nel secondo ed ultimo piano, in quegli anni seguiti alla fine della guerra, dove al tempo del fascismo c’era un dopolavoro, s’era istallata la sezione del Partito Comunista che portava il nome di sezione Argiuna: nome di battaglia di Mario Costalunga, cara figura di eroe autentico, recentemente onorato a Palazzo Trissino da Giuseppe Pupillo e da una nipote del caduto per la libertà. Argiuna: fra tanti nomi non sempre intelligenti, quello era stata pensosa scelta, rivelatrice d’un uomo degno d’esser accostato a Giuriolo, a Gallo, alla Setti, ai Fraccon. E chiamare col suo nome quella sezione, in quei mesi e quegli anni, fu, credo, qualcosa di più grave che un’appropriazione indebita. Ma allora era tutto strano e naturale allo stesso tempo: Sezione Argiuna, lassù, sopra le nostre teste, con proterve gare di bestemmie fra i giovani adepti, confidava in lacrime a mia madre la custode del Canneti, spaventata e inorridita. Probabilmente, nella testa di quei minacciosi ragazzotti, quelle bestemmie, più che tenzoni di sapore paesano, alla Meneghello, saranno state espressione della lotta di classe, contro il clerico-fascismo, come chiamavano il clima dominante in Città.

Ma, per un una frase imprudente, detta a Vittorio Bolcato, eccomi ora a giocare con un fantasma: giocare andrebbe magari bene, ma spero di non prendermi gioco di lui, o dei lettori. Il gioco è un po’ a nascondino, a ciupascondere, e un po’ come indursi a scorgere e a far scorgere ad altri volti e figure nelle nuvole o in una roccia. Noi magari la vediamo, ma difficilmente il nostro interlocutore riconosce nelle ondivaghe nubi, nella dolomia, nei nodi d’un tronco, la forma che pretendiamo di indicargli; e così, mortificati, si preferisce cambiare discorso. Tenendo in mano queste foto ingiallite della microstoria privata, ricordo appena un esame di Teoria e solfeggio, a conclusione d’un anno di attese, all’Isola (poi Piazza Matteotti) dopo lezioni ormai cancellate per sempre dalla memoria: attese interminabili, che mi venissero a prendere, mentre stavo in equilibrio sui sassi che fanno corona alla statua del senatore Lampertico con quel suo eterno stropicciarsi le mani. C’era di sicuro Armando Saetta, in quell’aula del Canneti, quel giorno: il titolare dell’insegnamento; e c’era il legnoso critico musicale del Giornale di Vicenza, Poloni; e ad un tratto apparve, sopra loro seduti, un fugace e terrorizzante Pedrollo. Ma vicino a me c’era un volto benevolo dai morbidi lineamenti, dalla rotonda fronte bombata, accentuata dalla calvizie, aureolato dai capelli bianchi, che mi sorrideva incoraggiante. Un personaggio dickensiano, di quelli flat, per quel David Copperfield che fu il bimbo di allora. (Avessi l’arte incisiva e l’animo affettuoso dei memorialisti di casa nostra, un Walter Stefani, un Remo Schiavo: ma troppe cose assideravano i futuri ricordi del bimbo di allora).

L’anno dopo, non so bene perché, conseguito quel primo diploma o diplomino, lasciai l’istituto — non ancora parificato — di Piazza Matteotti, e fui condannato a frequentare come allievo privato la casa di Armando Saetta, nel pauroso Palazzo Civena di Contra’ Lodi, con quella botola sul portico, che si apriva a spiare chi avesse tirato la maniglia del campanello; e salite le scale, immancabile, la moglie del Maestro, vestita di nero e d’alta statura, mi introduceva nel salotto, fra i gatti: ed eccolo il maestro, le sue sigarette accese a catena, i frequenti sonnellini mentre solfeggiavo o compitavo scale; quando già non lo trovassi addormentato; o assorto su di un problema alla scacchiera: finché, riposti i pezzi di colpo, facesse accomodare sullo sgabello lo scolaro che fui, rassegnato alle teste d’asino — meritatissime — che sistematicamente mi disegnava sugli infantili pentagrammi del Bona o del Cesi-Marciano. E di Tonolli, fusa col nome, imparato a casa, non mi rimase se non quell’aureola dei capelli, e il sorriso d’incoraggiamento in un esame forse da burla, ma spaventoso per l’esaminando. Che potevo sapere di lui? Oggi ho appreso, ma senza sorpresa – perché è difficile che un vecchio sappia sorprendersi – che Tonolli, oltreché un mattino mio angelo custode in un’auletta del Palazzo del Territorio, oltre ad essere un didatta di vaglia, un concertista di notevole pregio, e marito d’una ebrea vicentina di felice memoria, era stato altro ancora.

Che fosse stato marito della Lattes, io, un po’ fuori delle cose vicentine, un po’ fuori da tutto, venni a saperlo molto più tardi, frequentando, ormai suo collega, Aristide Dani. Il quale rievocava spesso con la sua arguzia vivace i suoi anni felici dell’infanzia e prima adolescenza a Settecà, e mi narrava della Lattes, che chiamava anche lui, più piccolo, ad assistere, come uditore, alle lezioni domestiche che impartiva: lezioni ch’egli ascoltava avidamente. Ed ora mi duole di non aver posto, magari per discrezione, le giuste domande all’amico. Sicché non mi è possibile inquadrare questa scenetta e darle un minimo di cronistica circostanzialità. Ma era eloquente l’affetto senza riserve di Aristide, mentre ripeteva gesto e parole della leggendaria professoressa, nell’atto di invitare il piccolo Dani, figlio d’una vedova con pochi mezzi, ad entrare dove la signora teneva lezione: immagino fosse tempo di guerra; forse accadeva a Sandrigo, o nella casa vicentina della scrittrice, dove la madre di Dani prestasse servizio? Fu così che tornai con stupore a sentire il nome simpatico di Tonolli, e seppi che era il marito della signora. E maneggiando anni dopo le carte lasciate da Dani, saltò fuori un mazzetto di cartoline e lettere in cui l’educatrice incoraggiava e talvolta incitava affettuosa quello che era stato un suo particolarissimo allievo, a non perdere tempo, ad affrettarsi a concludere gli studi universitari, e poi, tutta commossa, si allietava al fidanzamento annunciatole dal suo pupillo, alle nozze, alla nascita delle due bambine, all’ingresso, lui giovanissimo, in Accademia Olimpica. Divago, lo so. Fu però allora che, rifluendo al tempo del mio infantile incontro con Tonolli, se tale può dirsi, o non piuttosto un barlume fiabesco, i due fili esili e tenaci, come tutto quello che fa parte del lessico famigliare, i fili di Tonolli e della Lattes, prima separati ed ignorandosi, si intrecciarono per sempre nella mia mitologia privata. Tanto poco dunque, caro Vittorio, sarei stato giustificato a tirare in ballo ricordi personali, per coonestare un vanto forse scappatomi di bocca, d’aver conosciuto Tonolli, e da te preso per oro colato per eccesso di fiducia nel tuo amico.

Riprendiamo le fila: che sappiamo oggi di Tiberio Tonolli? Poco, a dire il vero. Notizie generiche del suo talento pianistico, di suoi concerti solistici, e più della sua assidua presenza nella sale da concerto come apprezzato accompagnatore. Ci viene soprattutto ripetuta la lode d’una sua didattica appassionata e appassionante. Ma, nota triste e solo per fare un esempio: la pubblicazione per il centenario del Canneti, patrocinata da un impressionante comitato di onore, neppure lo nomina, mentre ha cura di riportare i nomi di tutti i membri dei Consigli di amministrazione che si susseguirono dal 1865 in poi: in gran parte gente magari benemerita, ma che con la musica e tanto più con la didattica della musica, poco ebbe a che fare. Così come si tace il nome di Armando Saetta, che, con le sue stranezze senili, pur veniva dalla gran scuola napoletana; e così si ignorano con frettolosa superficialità altri benemeriti. Fu – permettimi, lettore, di dirlo – quella del centenario, un’occasione perduta. Esigue le altre fonti, da cui bisogna far gocciare con pena qualche notizia non proprio insipida. O per dir meglio: esiste un abbastanza nutrito Fondo Lattes in Bertoliana, con lettere fin troppo copiose di Tonolli alla moglie, ed io, indugiando a consegnare questo scritto ho dovuto leggerle, non senza rossori, perché sono lettere di fidanzato prima e di marito adorante a moglie forse un poco vampirizzante. Ed è, a volerle leggere, un atto poco pulito, come spiare da una siepe o da un buco della serratura: del resto, a che ascoltare allora e oggi i sussurri degli innamorati? Certo, chi volesse e sapesse potrebbe far ricorso alla grafologia, nei cui responsi i tratti caratteriali di Tonolli risulterebbero, credo, chiarissimi; e trarre qualche avara notizia di concorsi (regolarmente truccati) a cattedre musicali, di movimenti di cattedre scolastiche, con nomi e nomignoli di amici e conoscenti, da decodificare ed ambientare. Ma è tutto così ripetitivo, così lirico, effusivo e allusivo, in quella corrispondenza, che, pagato il prezzo dell’imbarazzo e del rossore, resta ben poco: un giudizio su Giorgio Favaretto accompagnatore d’una cantante: “scolorito e monotono, lieve tanto da disturbare, ma preciso e quindi adatto per piacere alle cantanti”, un accostamento invero curioso ed illuminante: la conclusione dei Karamazov di Dostoevskij, appena letto per incitamento della moglie, paragonata all’ineffabile estinguersi della sonata op. 110 di Beethoven;

l’entusiasmo del pianista per lo Schelomo di Ernest Bloch; e un giudizio sommario su di un’esibizione del pianista Tamburini: “Ha suonato come un boxeur”… Il resto è pura Liala: perché il linguaggio del sentimento vi è così fanciullesco, così alato, così epurato e liricheggiante da apparire irreale. Però che diritto abbiamo noi di stare a spiare gli innamorati, ad origliare lenesque sub noctem susurros? Dico la verità: mi pento di aver voluto leggere quelle lettere, che la Lattes avrebbe fatto bene a bruciare o a portare con sé nella tomba.

Ma chi volesse seriamente cimentarsi con la storia del Canneti e dei suoi insegnanti, dovrà frugare nel centinaio di unità archivistiche, raccolte di pratiche d’ufficio, di registri, relazioni, carteggi, stampe, oggi custoditi nell’archivio del Comune di Vicenza, e non ancora inventariati. Speriamo che qualcuno lo faccia. Intanto devo alla competenza sempre solerte della dott. Gazzola della Bertoliana la segnalazione d’un faldone (lo chiamo così, impropriamente, con gergo giornalistico-giudiziario ormai entrato in uso: di tratta d’una raccolta di materiali eterogenei, contenuta in una precaria cartella: che, grazie alla collaborazione fra Bertoliana e Archivio comunale, ho avuto l’agio di consultare). L’origine della cartella nasce dalla pratica d’ufficio delle spese (modeste spese) sostenute dall’istituto Canneti per la partecipazione al lutto per la morte di Tonolli, fra necrologi, fiori, telegrammi; e per la commemorazione del maestro, tenuta nel secondo trigesimo della morte, con un concerto all’Auditorio del Canneti, preceduto da una commemorazione, affidata al prof. Lorenzo Pezzotti, illustre medico dell’Ospedale di Vicenza e memorialista di guerra. Il testo del discorso, se pure fu scritto, non si trova, ma per fortuna, entro la cartella, furono riposti anche un opuscolo informativo sull’attività pianistica di Tonolli, dei primi anni Trenta, fatto stampare quando il pianista era nel pieno della sua fama, e il numero d’una rivista locale, da cui spremo qualche meno vaga notizia.

Fissiamo subito gli estremi cronologici della vita di Tonolli: nato a Levico il 10 giugno 1894, morto a Sandrigo la sera della Vigilia di Natale del 1961. L’anno prima aveva chiesto l’aspettativa annuale, in seguito a gravi problemi circolatori. Ma già in precedenza, lui che sempre puntualissimo, come lo ricordarono gli allievi, veniva da Sandrigo a Vicenza in bicicletta (e in caso di pioggia avrà preso la “Vaca mora”), aveva sofferto di seri attacchi di artrite, probabile frutto di due guerre: la prima combattuta sul fronte Carnico, come volontario irredento e giovane ufficiale degli Alpini: due croci di guerra, equivalenti ad una medaglia di bronzo; e, nel Quaranta in Albania, nella tremenda esperienza dell’attacco alla Grecia, come maggiore nel IX Reggimento Alpini ( in seguito congedato con il grado di tenente-colonnello). Chi andasse a Roma, all’archivio centrale dell’Esercito, troverebbe il suo stato di servizio. Ma Tonolli, oramai ne sono certo, uomo modesto e dignitoso, non era tipo da brigare per ottenere riconoscimenti di sorta: e sappiamo come andasse la pratica delle decorazioni nell’Esercito Italiano. Ci torneremo.

All’istituto musicale Canneti, egli reggeva la cattedra, almeno dal Trenta, di pianoforte principale; e dal ’43, era titolare di analogo insegnamento al Liceo musicale poi intitolato al suo collega e amico Michelangelo Pollini di Padova. Con l’ultima malattia s’era interrotta una collaborazione, che datava da poco più di due anni, con l’altro Liceo musicale, quello di Verona. Ma di Verona, dalla prima infanzia alla giovinezza, Tonolli era stato cittadino di adozione. Nato a Levico, terra allora austriaca, vi era stato portato piccolissimo dai genitori, di forti sentimenti patriottici, e a Verona era cresciuto (il padre, laureato a Padova, vi teneva una farmacia, dopo aver esercitato appunto a Levico la professione). A Verona Tonolli aveva frequentato le scuole pubbliche, dalle elementari, anzi, pare, dall’asilo d’infanzia, al liceo Maffei, per iscriversi poi, conseguita la maturità, alla facoltà di Legge all’Università di Padova. E fu a Verona, che, precocemente, certo non senza influsso famigliare, gli si era rivelata come vocazione insopprimibile la musica, materializzata nello strumento principe, il pianoforte, sotto la guida d’un didatta di fama, Luigi Rocca: ed essendo la scuola di musica delle città un istituto semi-privato, o semipubblico, non parificato, egli per coronare i suoi studi dovette trasferirsi a Pesaro, per conseguirvi l’anno stesso, che era il 1912, presso il locale Conservatorio, il titolo abilitante, il cosiddetto magistero.

Sulla didattica di Tonolli, sappiamo poco e molto: il molto è il sicuro appassionamento che sapeva suscitare negli allievi, anche quelli un po’ freddini, se non refrattari agli esordi. Tutti convergono nel ricordarlo maestro cordiale, sorridente, privo di affettazione. Uomo di un’avvolgente empatia, pronta ad accendersi d’ entusiasmi contagiosi, nutriti di comunicativa intelligenza musicale. Insomma, nel gergo attuale, un motivatore. Dalla cattedra, o meglio dalla sedia accanto alla tastiera e allo sgabello dell’allievo, il suo tratto doveva corrispondere a come lo descrivono colleghi ed amici: un uomo sereno, non pacifico, ma forse pacificato: certo sorridente, e d’un sorriso non simulato; un uomo di buon umore, anche, anche faceto: con forse certo che di fanciullesco. Ma qui non vorrei spingermi oltre e ricamare.

Ignoro se dal suo magistero sia uscito qualche pianista poi affermato. Si potrà cercare fra i nomi dei suoi allievi, nelle carte del Canneti e del Pollini. La luce dell’affetto unanime finisce per velare i contorni, per bruciare le penombre, e trasforma le testimonianze disponibili in altrettanti edificanti santini. Non amo la cultura del sospetto: ma le parole degli epicedi, si sa, anche autentiche, anzi spesso proprio perché dettate dal rimpianto, dalla pena, da quei sensi e moti oscuri che chiamiamo “il lutto”, dall’isolare sgomento un essere umano contro lo sfondo del nulla, avvolgono la figura del defunto come le bende protettrice d’una mummia e gli sovrappongono al volto una maschera dorata. Noi vorremmo richiamarlo in vita Tiberio Tonolli, per chiedergli: chi sei? Chi eri? E un fremito, un respiro lo cogliamo qua e là fra le righe: ecco l’uomo sereno, il maestro sorridente, camminare però nervoso, su e giù, fumando una sigaretta dopo l’altra, lui parchissimo fumatore, quando i suoi allievi, durante i sospirati e temuti ‘saggi musicali’, si esibivano in pubblico. Eccolo dunque un indizio o un sintomo: che tradisce la sua trepidante identificazione con l’allievo, credo congiunta al timore che molti insegnanti hanno provato, d’essere essi sotto esame, e non l’esaminando. Camminava irrequieto, lui che era stato sotto il fuoco dei cecchini, e fra le slavine in alta montagna, alla testa dei suoi uomini, in Carnia; che aveva, vent’anni dopo, vissuto e patito, tifo quasi mortale compreso, la sciagurata campagna di Grecia. Devo alla pietas di vecchio alpino, oltre che al fiuto dell’archivista, di Vittorio Bolcato, il reperimento di due rievocazioni del maggiore Tiberio Tonolli nel periodico dell’arma Alpin fa grado e l’essersi affrettato a farmene avere copia. Non in quelle pagine, però, ma nella famosa Cartella dell’archivio comunale trovo un breve ricordo d’un suo alpino: conferma della umana gentilezza dell’uomo, per quanto può essere compatibile con le crudeli necessità della guerra: si affaccia dunque In dissolvenza, nelle poche righe del testimone, l’immagine di lui che, maturo ufficiale, preso in una morsa di responsabilità e di fatiche, pure, appena trovasse un pezzo di tavola o una qualsiasi superficie orizzontale, vi faceva irresistibilmente scorrere le agili mani come su di una tastiera. La musica, l’altra sua identità, sopravveniva non chiamata, fra gli ordini e le ansie del servizio, e gli suonava dentro, forse lo isolava dal caos. Certo avrà dato materia per le facezie non proprio raffinate dei suoi alpini, e magari per qualche frizzo dei colleghi, quel suo trascorrere delle dita in arpeggi e chissà quali accordi solo da lui uditi: a meno che non fossero gli esercizi, poni il Gradus ad Parnassum, o gli studi dello Czerny, fatti a memoria, con la risorsa dell’orecchio interno, per non perdere del tutto la destrezza professionale. Ma togliamoci via il pensiero che tanta gentilezza e aura musicale gli impedissero poi di essere soldato e comandante in piena regola e convinzione Pur ufficiale di complemento, della sua penna bianca Tiberio Tonolli andava fiero: lo testimonia il compositore Omizzolo, suo amico dal primo Dopoguerra, allorché, matricola di Legge, lo conobbe, più anziano fuori-corso, e pur dopo il congedo, ufficiale ancora nel portamento, e nei panni grigioverdi, sotto il cappotto borghese. E ce lo confermano i due scritti commemorativi sulla rivistina degli alpini: nel primo dei quali suona una nota che per essere ovvia, non colpisce meno, perché non sottaciuta. Che egli dovette conoscere anche l’odio. A che cosa alludesse precisamente l’autore non è chiaro: certo alle sorti della moglie ebrea, con le angosciose vicissitudini dei lei, separata dal marito per salvarsi prima seppellendosi in casa di amici a Padova e poi in un convento veneziano; ma forse anche qualche particolare disgusto o peggio, ai tempi della guerra civile, su cui nulla sappiamo; o almeno nulla so io.

Ma in concreto, quale saranno stati i tratti della didattica di Tonolli? Stando alla testimonianza di chi l’aveva chiamato a Verona – testimonianza di qualche peso, perché del direttore del Liceo musicale, figlio d’un caro amico veronese di Tiberio – il maestro di Tonolli, Luigi Rocca, era stato fra i fautori del rinnovamento didattico del pianismo, di cui in Italia, ai primi del secolo, si era fatto banditore, sulle orme del tedesco Breithaupt, Bruno Mugellini. Si trattava di impostazione fisiologico- meccanica, a monte di qualsiasi problema interpretativo. Anziché concentrarsi, come s’era fatto nella tradizionale didassi della tastiera nel corso dell’Ottocento, sulla diteggiatura, articolazione e passaggio del pollice – al massimo estendendo l’attenzione al polso dello scolaro – la nuova scuola allargava l’attenzione alle spalle e alle braccia, privilegiandone la loro postura, come fulcro delle leve da cui irradiavano, attraverso le dita, i suoni. E dal maestro all’allievo ci sarà stata continuità. Dunque è legittimo immaginare che Tonolli abbia insistito sull’impostazione “globale” degli arti, muscoli e nervi, che presiedono e preparano l’opera delle mani e delle dita. Ma su ciò, per difetto di competenza e di documentazione, non vorrei insistere. Anche perché il suo collega Saetta della nobile scuola napoletana, dopo il mio anno di solfeggi manuali e vocali, fatti di formule astruse e di movimenti meccanici, passato alle sue lezioni private, mi tenne ad articolare due mesi a tastiera chiusa, e bisognava tenere ben inarcate le dita: “Ci deve passare un gattino” ripeteva. Non mi pare si preoccupasse mai della mia schiena e delle spallucce da bimbo rachitico (e ipotoniche le braccia, trovava il medico: allora questi bambini si dicevano ancora “linfatici”, donde gran cucchiaiate di olio di fegato di merluzzo, in ripugnante emulsione). Ma forse non c’era unitarietà di indirizzi al Canneti, né di ciò il suo direttore Pedrollo si sarà curato.

Al di là di questioni meccaniche, se vogliamo saper qualcosa di più sui gusti di Tonolli, sulla sua cultura musicale, avessimo disponibile i programmi dei saggi musicali di fine d’anno, ecco una bella fonte per vagliare un maestro: l’archivio del Canneti è li ad attendere un preparato e amoroso ordinatore, non un archivista qualsivoglia.

Ma sullo stile interpretativo ch’egli suggeriva, più che imporre, ai propri allievi, qualche lume trapela dall’attività concertistica del maestro stesso.

E qui spulciamo da un’altra pubblicazione di larga diffusione. Per l’ottantesimo della fondazione della Società del Quartetto, fu commissionata a Cesare Galla una storia dell’istituzione vicentina. Scorrendola, troviamo qualche fugace apparizione di Tonolli. Nel marzo 1923 il maestro accompagnava, qui a Vicenza, il soprano Renata Lurini “in una di quelle tipiche serate-collage che partì da Paradisi per arrivare a Respighi, a Pizzetti, attraverso Sarti, Mozart, Schumann e Musorgskij”.

Nel maggio del 1925 si esibì il Quartetto Veneziano, che si avvalse di Tonolli nel Quintetto di Schumann. Non ci sono commenti del cronista, che forse ignorava come il quartetto fosse quello voluto da D’Annunzio al Vittoriale. E sarei curioso di sapere come il Vate, avendo a diposizione una pianista della forza d’una Baccara, si servisse d’altro interprete. Chi volesse, potrebbe trovare risposta nell’Archivio del mausoleo dannunziano.

Ma riprendiamo a sfogliare le cronache del Quartetto. Nel 1932 finalmente, sottolinea il cronista, ecco Tonolli in un concerto “tutto suo, dopo tante serate da accompagnatore”, qualcosa come un premio o una fortuna insperata, viene da pensare, per un Travet del pianoforte. Nel Dopoguerra, l’ultima segnalazione del libro: il concerto del quartetto Poltronieri con l’apporto “dell’intramontabile Tonolli”: curioso epiteto, affibbiato ad un uomo allora sui cinquantacinque anni. Ironie veniali, quelle del brillante successore, al Giornale di Vicenza – già Vedetta Fascista – dei cronisti Tomelleri e Poloni; eppure, data la rarefazioni delle fonti, e l’oblio che in moto sempre più rapido avvolge uomini e cose della vecchia Vicenza, sono ironie che meritano qualche rettifica.

Quanto a quel concerto “tutto suo”, la cartella del Canneti ci informa che Tonolli aveva già tenuto, tre anni prima, a Roma, con documentabile grande successo, un concerto diffuso dall’EIAR (la RAI fascista) con Pedrollo direttore: in programma il Concerto il sol maggiore op.58 di Beethoven. Ebbene, se può voler dire qualcosa, prima di saperlo l’avevo indovinato: una scelta rivelatrice e congeniale all’immagine del pianista trentino ed al suo amore per la sonata op. 110. E Pedrollo, in quel momento responsabile della programmazione musicale classica dell’Ente, non era tipo da compromettere la propria fama per questioni di amicizia o di campanile. Nel ’31 leggiamo che a Brescia Tonolli si era esibito in recital con un programma che si apriva con Scarlatti, per volgersi a Beethoven, a Ravel, a Malipiero, e si concludeva, accortamente, con i virtuosismi di Liszt e lo charme di Chopin. Si può prender fin che si vuole con le molle l’attestazione cronistica dell’entusiasmo del pubblico (freddino, non a torto, solo verso il pezzo dell’incontinente Malipiero: un omaggio non proprio felice a Debussy), ma di un’altra testimonianza non ci è lecito dubitare.

Spero di non essere accusato di esterofilia se, invece dell’attività concertistica italiana del Maestro Tonolli, invece del pur stimabile suo critico vicentino Tomelleri, lascio parlare i tedeschi, che, in questioni musicali, e non solo, prendo molto sul serio. In quello stesso 1931 Tonolli si era esibito a Breslau, in italiano Bratislava, oggi quarta città polacca, allora la sesta città della Germania, con 600.000 abitanti. Ecco che cosa scrisse in proposito la Schlesische Zeitung:

L’artista offerse al suo uditorio l’arte del barocco musicale ( Frescobaldi, Bach) delle melodie italiane del rococò ( Scarlatti), del classicismo tedesco ( Beethoven) dei moderni italiani ( Martucci, Malipiero, Castelnuovo Tedesco), del romanticismo ( Chopin): un programma che nella vastità della sua composizione presentava compiti quanto mai svariati. Ogni singolo svolgimento di essi incatenò in via assoluta, per la nota personale conferitagli dal Tonolli. Per quanto sia difficile esprimere a parole la intima comprensione musicale, pure ci si ravvicinerebbe al vero, dicendo che l’origine del particolare fascino della esecuzione musicale [di Tonolli] va ricercato in una fusione fra nitidezza nella linea e costruzione ingegnosa e grandiosa, la quale ultima rimase sempre libera da ogni cupa pesantezza, grazie ad un tono fondamentale di eleganza. Adamantina chiarezza nella polifonia, dovuta a perfetta diteggiatura, uguaglianza sonora nel melodico, stupenda agilità, costante elastica articolazione del polso, forza e resistenza sono i privilegi tecnici eccezionali, che formano la premessa esteriore per il perfetto spirituale dominio del programma così vario.

Tale il resoconto firmato dal prof. Ernst Kirsch, docente di musicologia all’Università di Breslau/ Bratislava.

Un altro commentatore, il cronista musicale della Breslavia Zeitung lodava , nel Tonolli “accuratezza del tocco, dosaggio accurato degli effetti del pedale e, non da ultimo, una sfumatura graziosamente vivace — non già nervosa, ma graziosamente vivace — del modo di porgere”.

Sicché Luciano Tomelleri non era dunque critico parziale, quando, all’indomani del concerto vicentino del ’32 annotava nella Vedetta Fascista vicentina: “Le sue spiccate doti musicali si sono raffinate e intellettualizzate […] la sua interpretazione è sempre squisitamente letteraria senza accademica freddezza, poetica senza esibizionismi sentimentali, sempre equilibrata anche nel pathos”. Facciamo grazia al critico delle improprietà lessicali, che rischiano di tradirne il pensiero: ma Tomelleri aveva l’orecchio intelligente, e coglie le doti di equilibrio, di elegante sobrietà, di vivacità animata del pianista. E come da questi fu prediletto il concerto n. 4 di Beethoven, così ci è sembrato di sapere in anticipo che egli, nel suo fulgore, avesse fatto propria la sonatina di Ravel, di cui rendeva il Mouvement de Menuet con eleganza nutrita di “accattivante intimità” (Tomelleri).

Ma l’uomo sapeva calarsi anche in climi ben diversi, dal classicismo viennese, ai postumi studi sinfonici di Schumann, e rendere Chopin con “mirabile” profondità espressiva.

Di una cosa si può dunque stare certi: Tonolli non dovette essere né esecutore algidamente accademico, né un ultraromantico scapigliato, come quei pianisti che, negli accordi del “fortissimo”, per posa di ebbrezza dionisiaca, oltre le dita, pigiavano col palmo i tasti bianchi intermedi, a mo’ di cluster, sporcando l’accordo: i “boxeur” di Tonolli, sul tipo di quel Tamburini.

Non c’erano dunque nei suoi successi a cavallo degli Anni Trenta, le premesse per una carriera di concertista di primissimo piano? Che cosa si inceppò? Quando si manifestò quell’emotività, che minò la fiducia nei propri mezzi esecutivi? Ovviamente, in mancanza di diari e di una nutrita corrispondenza sua, ad altri che non fosse la moglie, una risposta a cuor leggero non si può dare. Pure qualche indizio si presenta da sé. Perché ignorarlo?

Riprendo dalla cartella spesso citata un giudizio d’uno che era legato da profonda amicizia con Tonolli, Silvio Omizzolo, il quale, nella sua breve rievocazione dell’amico, osserva: “Tiberio non aveva spirito pratico” e lo dice “incapace di adattarsi nei particolari materiali della vita”. Ovviamente non abbiamo trovato la chiave del ripiegamento ad una misura provinciale, sia pure di nobile livello, della carriera e della vita di Tonolli: molti come lui divennero, nonostante quella remora, artisti di grido. A fare la differenza, potranno essere invocate fattori di circostanze, di ambiente. Ma poi, o meglio simultaneamente, entrano nel gioco delle forze vitali, anche dinamiche interiori che non conosciamo. Giochiamo a indovinare – e che il caro fantasma ci perdoni. 28 luglio 1932: è la data del matrimonio con Laura Lattes: 40 anni lui, 38 lei. I Tonolli a Sandrigo erano dei “signori”: abitavano una delle tre ville da Sesso, la meno ambiziosa, sia pure, una villa d’impianto pre-palladiano, rimaneggiata più volte, ma pur sempre circondata da antiche mura, col prato all’inglese e con un suo bell’oratorio settecentesco. Signora e credo signoreggiante, a Sandrigo e in casa, era la madre di Tonolli, che in paese dicevano “baronessa”: figlia d’una Costanza Rubini e del Cavaliere Ottone di Grueber, era nata a Trento il 14 gennaio 1869. Sarà stato insignito, il cavalier Grueber, lui o i suoi ascendenti, d’un titolo riservato agli alti funzionari dell’impero absburgico. Non ho fatto ricerche: forse fu Cavaliere della Corona Ferrea, ordine cavalleresco ideato da Napoleone e poi copiato dall’Austria per il Lombardo-Veneto: recente nobiltà di toga, concepita per innalzare i funzionari borghesi al servizio dello Stato. Comunque anche quel titolo di baronessa che correva per le bocche di Sandrigo è eloquente. La villa era stata acquistata, o ereditata. Insieme ad una campagna, dalla madre di Tonolli subito dopo la guerra, quando da Verona si era trasferita nel Vicentino. Le poche carte consultabili non fanno mistero che il matrimonio del figlio con un’ebrea fu contrastato apertamente dalla cattolica signora Grueber. Negli indugi della stesura di queste righe si è nel frattempo aggiunta una fonte secondaria che mi piace citare, quella d’una fresca tesi triennale, stesa con buona documentazione e bel garbo: confermante che le nozze civili fecero “ scandalo” in città e più ancora in paese e in famiglia: “A Sandrigo, in casa Tonolli, l’ebrea fu mal tollerata fin dall’inizio”: quel matrimonio fu considerato “unione disonorevole” per un ufficiale degli alpini, presidente della locale Associazione combattentistica e dell’Azione Cattolica.

Il 1912, l’anno in cui Tonolli conseguì il magistero a Pesaro è pure l’anno della morte del padre. All’adolescente Tonolli il primo successo fu dunque avvelenato da un lutto forse immedicabile. Vent’anni dopo, al tempo del tardivo matrimonio, Tonolli sembrava musicista avviato a luminosa, benché già un po’ tarda, carriera internazionale. Poi esce dai circuiti del grande concertismo. Bisogna respingere conclusioni troppo facili. Ma è quasi ovvio pensare che il suo rapporto con la madre “baronessa” fosse di quelli troppo intensi, a doppio legame: e si può, dunque, senza forzature, evocare per lui, la Cognizione del dolore.

Del resto, non solo le frustrazioni generano mostri: anche il successo. C’è chi, per oscuri sensi di colpa, conseguitolo, non può sopportarlo, e declina. Fu Sigmund Freud che, servendosi di Shakespeare e di Ibsen, mise a fuoco da par suo questa sindrome da autoscacco. Inevitabile, dunque, riferirsi ad Edipo. Anche sul matrimonio con la Lattes vi sarebbe da dire: quella di Tonolli mi vuole apparire come l’adorazione d’un figlio verso la madre.

Ma Tonolli, anche senza psicoanalisi, forse proprio grazie all’amatissima, ma anche tremendamente fragile moglie, si conobbe, e seppe saggiamente conciliarsi con se stesso. Non si atteggiò a vittima o ribelle: mai la maschera beethoveniana cui allude qualche testimone delle sue tarde esecuzioni, aderì davvero al suo volto mite. In cambio delle sue note perdute, io preferisco ricordarlo sorridere, incoraggiante e protettivo, ad un balbettante bambino del 1949.

Alla fine, su quella figuretta dickensiana, si sono proiettate ombre e luci gaddiane di figlio tormentato, di marito adorante, di esecutore ansioso (del cattolico non saprei dire). Vorrei ricordare, per un atto di giustizia, che in guerra egli, considerato disertore e traditore dall’impero austriaco, non accettò la via che gli veniva offerta dai Comandi italiani, di servire la patria nelle retrovie: consapevole che se fosse caduto prigioniero e riconosciuto l’attendeva la forca, pure volle l’onore della prima linea. Più volte, al pianista di squisita eleganza, mentre scrivevo queste righe, si è sovrapposta, trasformata quasi in un impossibile ricordo, la sua ombra, fra gli spari e le grida, là, sul tozzo crinale, tra il Freikofel e il Pal grande, sopra il passo di Monte Croce Comelico, una notte di tormenta, quando, alla testa della propria compagnia, il gentile Tiberio, col nome di battaglia di Carlo Rubini, respinse a piè fermo l’ attacco in forze del nemico.