Pubblichiamo questo intervento di Francesca Lomastro, una cui versione ridotta è stata letta in occasione dell’assemblea dell’Accademia Olimpica di domenica 27 marzo 2022.

di Francesca Lomastro
Accademica olimpica e presidente dell’associazione “Il ponte – Mict”

Oggi la tragedia dell’Ucraina invasa, delle città assediate, degli ospedali distrutti. Oggi la trepidazione per quello che avviene in quel Paese. Oggi la paura per un nostro coinvolgimento.
Ma prima di oggi ad occuparsi di Ucraina – il Paese ponte tra Occidente e Oriente, secondo la definizione dello slavista Sante Graciotti -, non erano in molti, a parte gli specialisti di storia dei Paesi dell’Est e i sociologi interessati alle dinamiche dell’immigrazione.
A slavisti e sociologi vanno però aggiunte le tante organizzazioni di volontariato nate in tutta Italia e in molti Paesi d’Europa e del mondo a seguito dell’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986, quando, una volta caduta l’Unione sovietica nel 1991, fu possibile far uscire da Ucraina, Bielorussia e Russia gruppi di bambini, la parte della popolazione più esposta ai danni prodotti sulla salute umana dalla dispersione delle sostanze radioattive, per quelli che furono definiti “soggiorni di risanamento”.

Quanto scrivo deriva dal fatto che – per volere del destino, direi, non per scelta preordinata – sono coincisi in me due coinvolgimenti. Il primo viene dall’aver fondato assieme ad altri una di queste associazioni, “Il ponte – Mict”, associazione la cui peculiarità consiste nell’essere anche culturale oltre che umanitaria. Sul piano umanitario l’associazione ha ospitato per soggiorni di risanamento bambini e ragazzi della zona che ha risentito delle conseguenze di Chernobyl, con oltre 5.000 presenze; ha aiutato ospedali, orfanotrofi, case famiglia. Collabora con una fondazione umanitaria inglese che fa curare in Italia bambini e ragazzi ucraini e kirghisi affetti da tumori non curabili nei loro Paesi.

Il secondo coinvolgimento deriva dal mio essere stata a lungo collaboratrice dell’Istituto per le ricerche di storia.
A volte le coincidenze hanno una loro produttività imprevedibile. La mia conoscenza, come presidente dell’associazione umanitaria, della ambasciatrice d’Ucraina presso la Santa Sede, venuta anche a Caldogno a ringraziare le famiglie che avevano aperto le loro case ai piccoli ucraini, fu il motivo per cui lei rivolse a me la richiesta di aiutarla ad organizzare un convegno per celebrare l’apertura della prima ambasciata ucraina presso la Santa Sede.
Il coinvolgimento dell’Istituto per le ricerche di storia fu la mia risposta, tanto più che De Rosa, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, aveva allargato la sua attenzione all’Est, seguendo la visione di papa Woityla di un’Europa che respira a due polmoni, l’Occidente e l’Oriente. Fu così che quell’istituto realizzò due importanti convegni uno nel 2002 sulla storia religiosa dell’Ucraina, l’altro nel 2004 sulla “grande carestia”, l’holodomor del 1932-33, un convegno importante e coraggioso, visto il rischio di strumentalizzazione che poteva correre in qualche modo il trattare di un crimine di Stalin, un crimine allora quasi sconosciuto, avvenimento tragico la cui memoria era stata vietata persino agli Ucraini.
E altre iniziative realizzarono in collaborazione la mia associazione e l’Istituto, come un convegno sul peso di Chernobyl e uno sulla storia dell’infanzia abbandonata.

Entrata a far parte dell’Accademia Olimpica sono stata felice dell’accoglimento immediato di questo mio interesse e di aver condiviso con voi l’attenzione su un aspetto dell’Olocausto quasi sconosciuto nonostante la sua ampiezza, l’“altra Shoah”.
Questo in occasione della Giornata della Memoria del 2019 tutta dedicata all’Ucraina, in cui ricorderete che abbiamo parlato della composizione della popolazione ucraina anche attraverso le danze, ucraine, zigane, ebraiche, della disumanità degli eccidi nazisti, anche attraverso le foto, dell’impatto psicologico persino sulle SS delle fucilazioni incessanti di vecchi, donne e bambini, del complesso rapporto tra ebrei e potere statale. E poi in quella dell’anno successivo, in cui alla sezione dedicata alla sorte degli Ebrei del Veneto su affiancata una sezione sullo sterminio degli ebrei ucraini – gli ebrei erano concentrati soprattutto nel centro-est Europa -.
Infine, aggiungo un’ultima circostanza che mi spinge a scrivere, ultima ma non meno importante.
Io sono andata in Ucraina più di una volta, ne ho sentito pulsare il cuore soprattutto nei primi anni, negli istituti per bambini affidati alle cure dello Stato, orfani biologici e orfani sociali, negli ospedali in cui ho sentito discutere di due pazienti e di una sola valvola cardiaca, di tavoli operatori e di apparecchiature antiquate, sempre sull’orlo di cedere e di smettere di funzionare.
Ho visto donne all’apparenza vecchie, vecchissime, magari in realtà quarantenni, aspettare ancora ad ore notturne, al freddo, alle uscite della metropolitana che qualcuno comperasse le due meline esposte su un pezzo di giornale.
Ho letto le poche schede sui bambini che venivano ospiti da noi, storie di famiglie distrutte dall’alcolismo, dalla povertà, dalla malattia. Era un quadro comune, purtroppo, ai Paesi ex-Urss, i cui toni più cupi l’Ucraina ha faticosamente schiarito.

Ma ho anche riempito i miei occhi di cieli incredibilmente tersi e azzurri, di vastità di paesaggi a noi qui sconosciuti, ho vissuto il calore della loro ospitalità verso l’italiana che aiutava i loro bambini e che si interessava della loro storia. Ho discusso con uno storico importante, Yurii Shapoval, della per lui stupefacente capacità di condivisione della pena altrui degli Italiani. Ho incontrato e sono diventata amica del primo fotografo che sorvolò la centrale di Chernobyl subito dopo l’incidente, Igor Kostin, e dell’artista che ha ideato il museo di Chernobyl a Kiev, Anatoli Gaidamaka.

Sono stata “presa”, “catturata” dall’Ucraina, e per questo le devo la mia testimonianza, perché, pur senza essere una specialista, di fronte all’aggressione cui stiamo assistendo ormai da quasi un mese, ho il dovere morale di condividere alcune osservazioni.

Allo scempio di vite umane, alla distruzione di intere città, allo sconvolgimento del paesaggio che è dinanzi ai nostri occhi vengono date da parte russa delle ragioni storiche. E allora ecco alcuni frammenti di un discorso storico che può aggiungere qualche elemento alle analisi di esperti di geopolitica internazionale.
Un primo frammento. L’Ucraina, dopo la fase d’oro della Rus’ di Kiev durata circa tre secoli e terminata con la conquista mongola, ha sempre aspirato all’indipendenza raggiungendola solo in brevissimi periodi della sua storia. I versi del suo inno nazionale, tante volte eseguito in questi giorni, ricordano i cosacchi di Zaporizzhia, quei liberi borghesi, artigiani e contadini che, pur di non vivere sotto il giogo polacco, abbandonarono le loro terre e si ritirarono in una zona meno fertile dove diedero vita ad una prima “repubblica” democratica, con una costituzione, la costituzione di Pylyp Orlyk, del 1710-1711, che prevedeva la separazione dei poteri, ben in anticipo su quella americana e quella francese.
La fierezza con cui l’Ucraina rivendica oggi il diritto alla libertà e alla democrazia, viste come opposte al governo “asiatico” di Mosca, non è nuova, risuona nei versi dell’inno scritto a metà Ottocento, parole che potrebbero essere scritte oggi per la situazione attuale “Noi, fratelli, regneremo nel nostro Paese libero. Daremo anima e corpo per la nostra libertà e mostreremo che noi siamo della stirpe dei cosacchi”.

Secondo frammento. Ascoltiamo oggi parole pesanti quale genocidio. Ma è nella storia dell’Ucraina che c’è stato un vero genocidio, ormai riconosciuto come tale da molti Paesi, quello della “grande carestia” del 1932-’33 con la quale Stalin fece morire di fame milioni di contadini ucraini – tra i 4 e i 7 milioni -, mentre esportava il grano da loro prodotto, ritenendo che far morire i contadini ucraini significasse annientare l’anima della nazione e piegare il suo nazionalismo, ovvero il suo desiderio di essere riconosciuto quale popolo libero, con una propria tradizione e una propria lingua.
Uno storico ucraino partecipante al convegno del 2003 dell’Istituto per le ricerche di storia raccontò che quando si aprirono gli archivi e si “scoprì” l’holodomor e la sua dimensione e la determinatezza con cui il potere centrale, il potere di Mosca, aveva condannato a morte i contadini ucraini, gli storici, e tra questi egli stesso, fecero fatica a credere a quello che leggevano. Non potevano ammettere che davvero lo Stato, quello Stato che inneggiava alla fratellanza dei popoli slavi e in particolare di Russi e Ucraini, avesse fatto una guerra così spietata ai propri contadini.
E che non si trattasse di una interpretazione di parte lo dimostra il fatto che l’appello al Parlamento italiano e a quello europeo per il riconoscimento della carestia ucraina come genocidio scritto al termine del convegno nel 2003, fu sottoscritto tra la commozione generale anche da importanti storici russi dell’agricoltura. La lettura di quell’appello e delle firme dei sottoscrittori, provenienti da vari Paesi del mondo, ma soprattutto dei russi accanto agli ucraini è tra i ricordi più emozionanti della mia storia personale, non solo di studiosa.

Terzo frammento. Persecuzione della lingua russa. Che l’Ucraina conosca il peso del divieto di esprimersi nella propria lingua lo attesta bene la storia del poeta nazionale ucraino, Taras Shevchenko, condannato dal potere zarista all’esilio per 10 anni in una sperduta località del Kazakhistan, col divieto assoluto di scrivere, proprio per aver composto le sue opere in ucraino. Questo nell’Ottocento. Tra il periodo zarista e quello sovietico furono ben 56 gli atti legislativi volti a limitare e a vietare l’uso dell’ucraino gli Ucraini.
Al contrario, oggi il racconto di una persecuzione dei russofoni in Ucraina nella mia personale esperienza per la conoscenza di tanti ucraini è di una totale assurdità. Basta anche solo ascoltare le persone che oggi arrivano qui sfollate, che parlano ancora indifferentemente russo e ucraino, bilingui con preponderanza del russo nelle persone di una certa età, dell’ucraino nei più giovani.
E se si torna al 2014, data dell’inizio della guerra nel Donbass, le statistiche dicono che i mass-media più seguiti erano in russo, la radio e televisione e giornali, in tutta l’Ucraina, non solo nella parte orientale. E vi erano molte scuole in cui anche l’insegnamento era impartito in russo, ben diversamente da quanto avveniva e avviene in Russia, lì dove vivono alcuni milioni di ucraini, per i quali non ci sono scuole ucraine né un solo giornale in ucraino. Sappiamo d’altra parte i diritti delle minoranze non rientrano tra le preoccupazioni di Mosca, nemmeno vi rientrano nemmeno quelli della sua stessa popolazione più indifesa, come dimostra la depenalizzazione del reato di violenza domestica per la quale avviene ogni anno una strage di donne e di bambini russi.

Quarto frammento. Sentiamo di una Crimea “storicamente”russa. Ma uno specialista come Andrea Graziosi scrive che “storicamente” la Crimea non appartiene a nessuno, essendo stata “luogo di migrazioni e rimescolamenti costanti”, con violenti spostamenti di popolazione. Solo nel 1783, ovvero poco più di 200 anni fa, divenne russa dopo molti secoli di dominazione ottomana.
Se proprio dovessimo dire di chi è quella penisola, così attraente per la sua conformazione e vegetazione mediterranea e così strategica per la sua posizione, dovremmo rispondere che è soprattutto dei tatari, quei tatari che con la conquista russa furono spinti fuori della penisola verso la Turchia, che poi sotto Stalin furono deportati e che adesso sono oppressi nella Crimea tornata russa, provincia senza status particolare, non riconosciuta politicamente, mentre prima dell’annessione esisteva la Repubblica autonoma di Crimea nell’ambito della Repubblica d’Ucraina, con un proprio parlamento locale e rappresentanti in quello nazionale.

Ancora una parola pesante, un riferimento storico preciso, al nazismo, all’Ucraina come paese nazista.
Non dovrebbe poter essere un riferimento al presente, visto che i partiti di estrema destra hanno raccolto una percentuale insignificante di voti alle ultime elezioni, il 2 %. Il riferimento dovrebbe allora essere al collaborazionismo durante l’occupazione nazista del 1941-43, una delle occupazioni più feroci di un esercito feroce. Hitler, che attribuiva enorme importanza all’Ucraina perché voleva sfamare il popolo tedesco con il suo grano, voleva “diradare” gli Ucraini per sostituirli con contadini tedeschi. Ovviamente iniziando dagli ebrei, dai rom, dai rappresentanti del partito e della chiesa.
E in realtà l’esercito tedesco fu accolto nelle regioni occidentali, in Galizia, in Volinia, come un liberatore, liberatore dallo stato stalinista di cui quelle regioni erano entrate a far parte da poco, e molti furono i nazionalisti che inizialmente si schierarono con gli invasori, illusi dalla propaganda tedesca che, una volta sconfitta l’Unione sovietica, sarebbe stata creata una Ucraina indipendente.
I collaborazionisti ci furono in quella misura che una storica come Giovanna Brogi ha definito quale fisiologica a tutti i Paesi occupati e presero parte anche ai massacri di ebrei, quasi sempre con compiti organizzativi.
Ma si dovrebbe anche ricordare che ci fu ben più che un generico collaborazionismo tra i soldati dell’Armata Rossa, con la costituzione, sotto la guida del generale Vlasov, di una “Armata di liberazione” formata da soldati sovietici prigionieri dei nazisti e schierata con l’esercito tedesco.

L’accusa di essere uno stato nazista rivolto ad un Paese che perse nella guerra contro il nazismo almeno 8 milioni di vite umane e in cui furono sterminati oltre 1 milione di ebrei è offensiva, oltre che paradossale, senza contare il fatto che il suo attuale presidente è ebreo, che il più grande centro culturale ebraico in Europa è in Ucraina, che si stava assistendo ad una diaspora al contrario, ovvero al ritorno in Ucraina di ebrei da Israele, soprattutto verso Odessa, che Uman, città dell’Ucraina centrale dove è la tomba di un famoso rabbino, è luogo di pellegrinaggio verso cui convergono annualmente centinaia di migliaia di ebrei da tutto il mondo.

Appunti, frammenti di un discorso storico sui rapporti tra Russia e Ucraina che potrebbe proseguire e che non dovrebbe dimenticare Chernobyl, disastro prodotto da un sistema in cui la voce degli scienziati non poteva contraddire quella del potere di Mosca – chi metterebbe una centrale nucleare a distanza di meno di 200 km da una città di 3 milioni di abitanti? Chi tacerebbe delle conseguenze dell’incidente sulla salute per giorni e settimane, se avesse a cuore la sorte della popolazione? -.
Gli avvenimenti attuali che stanno sconvolgendo gli equilibri mondiali chiamano in causa anche l’Accademia perché prosegua nel percorso intrapreso di avvicinamento alla storia e alla cultura dell’Ucraina, per andare alle radici profonde del rapporto tra due popoli che vengono descritti, e in parte sono, popoli fratelli, una retorica su cui ha sempre insistito il potere sovietico, anche se troppo spesso la Russia è stata il fratello Caino per l’Ucraina.
E soprattutto può con uno sguardo più alto, può l’Accademia pensare all’Ucraina da far conoscere e amare. Magari riprendendo un progetto appena accennato nel 2014 e interrotto dagli avvenimenti, quello di una grande mostra della pittura ucraina, portando qui a Vicenza capolavori a noi sconosciuti, oggetto anch’essi di oppressione e di dimenticanza.