IL QUARTO D’ORA ACCADEMICO
#iorestoacasa
di Andrea Pilastro
Biologo evoluzionista
Alla fine è arrivata. La pandemia che un gran numero di epidemiologi e biologi evoluzionisti prevedevano ormai da decenni è arrivata anche a casa nostra. Le più recenti epidemie le avevamo schivate: la SARS (nel 2003) e diverse influenze aviarie (meno contagiose anche se più letali di Covid-19), la MERS (limitata al medio oriente, esplosa nel 2013, ma due nuovi casi riportati il 15 gennaio scorso in Arabia Saudita) ed Ebola, in corso e, al momento, limitata all’Africa tropicale. Questi segnali d’allarme si sono ripetuti frequentemente negli ultimi decenni, con grande preoccupazione, purtroppo, dei soli epidemiologi. Gli epidemiologi avevano anche un identikit del nuovo virus: non troppo letale (paradossalmente una elevata letalità, come nel caso di Ebola, riduce il rischio di contagio) ma molto contagioso e per il quale la popolazione umana non possiede anticorpi. Insomma un virus nuovo, ma non troppo diverso da altri virus che colpiscono la popolazione umana, potenzialmente pandemico era atteso.
Facile profezia. Se per un leone l’ambiente ideale è una savana che pulluli di prede, per virus, batteri e altri parassiti esso è rappresentato da una specie ospite che viva ad alte densità e che sia molto mobile, i due fattori che facilitano il passaggio del parassita da un individuo ospite all’altro. Se lo chiedete ad uno zoologo, farà fatica a trovare una specie maggiormente sociale, numerosa e mobile della nostra. La popolazione umana è cresciuta in modo esponenziale, quadruplicando nell’ultimo secolo, spostandosi in grande misura dalle zone rurali alle città, a loro volta diventate sempre più grandi, dense e interconnesse. L’ultima, decisiva caratteristica: gli spostamenti, anche su scala continentale, sono molto più rapidi del tempo di incubazione delle malattie e raggruppano persone da aree diverse, le espongono al contagio, e all’arrivo le disperdono nuovamente. In natura, anche nelle specie molto mobili, gli individui malati hanno normalmente un tasso di dispersione ridotto. La specie ospite ideale.
L’altro fattore di rischio pandemico è anch’esso legato all’esplosione demografica umana: i contatti tra l’uomo e gli animali selvatici potenziali serbatoi di nuovi virus, batteri e parassiti, si sono moltiplicati per effetto della nostra invasione di ogni ambiente disponibile, e per la rottura degli equilibri ecologici che rendevano le occasioni di incontro e scambio di parassiti tra specie ospite diverse rare nel tempo e nello spazio.
E anche qui i numeri sono tutto: la probabilità che un virus, un batterio o un altro parassita evolva la capacità di invadere un nuovo ospite è di per sé molto bassa, ma se le occasioni di incontro si moltiplicano, le probabilità che prima o dopo questa capacità evolva aumentano proporzionalmente.
Riduzione del danno. Sapere tutto questo è ovviamente di ben poca consolazione e tutta la società è chiamata a collaborare per far sì che gli sforzi e i rischi che affrontano medici e personale sanitario in primo luogo, e tutti coloro che continuano a lavorare ai servizi essenziali non siano vani. Nel dare disposizione alla popolazione, però, è necessario usare le informazioni che la scienza ci mette a disposizione per operare scelte collettive ed individuali consapevoli e razionali. L’esperienza della Cina ci dice che il contagio avviene in larghissima misura a seguito di contatto diretto senza protezione o della condivisione prolungata di ambienti chiusi con persone che abbiano in precedenza contratto il virus. Poche semplici misure, se adottate sempre con grande attenzione, sono in grado di dare un aiuto decisivo: 1) rispettare la distanza di almeno un metro da altre persone, 2) evitare al massimo ambienti chiusi frequentati da altre persone (negozi, uffici, mezzi di trasporto) e 3) lavarsi frequentemente le mani, evitando assolutamente di portarle agli occhi e alla bocca.
Le curve epidemiologiche ci dicono che non vedremo l’effetto di queste misure prima di 2-3 settimane. Ma vedere, come si spera, un effetto, non significa che potremo tornare alla normalità, perché, da quel momento, potrà comunque passare un altro mese prima che queste restrizioni possano essere ritirate. In Italia non si potranno ottenere dei risultati con la stessa velocità della Cina, fondamentalmente per una ragione. La Cina ha messo in quarantena una popolazione paragonabile alla popolazione italiana, ma il resto del paese ha potuto continuare a garantire (pur adottando comportamenti che riducevano il rischio di contagio) il mantenimento dei servizi essenziali anche per la popolazione in quarantena. Noi italiani ed europei siamo tutti coinvolti e le misure non potranno quindi essere così restrittive nei trasporti e negli ambienti di lavoro. Quindi ci aspetta una lunga “guerra di trincea”. Per questa ragione è importante che non adottiamo misure che hanno efficacia molto limitata nel contrastare la diffusione del virus ma che rischiano di avere un costo significativo per la popolazione nel medio e lungo periodo. Penso in particolare alle restrizioni alle attività all’aria aperta, come camminare, correre o andare in bicicletta. Queste attività sono rischiose solo se praticate in gruppo, e sono invece importanti per una popolazione improvvisamente costretta alla sedentarietà e a rimanere chiusa nelle proprie abitazioni, per le conseguenze sulla salute (penso ai diabetici, alle persone con problemi circolatori) ma anche sulla capacità di resistenza psicologica delle persone sole o più fragili da questo punto di vista. Il peso di queste difficoltà è per ora scaricato sulle singole persone e sui medici di base, ma se le restrizioni continueranno per due mesi (e probabilmente ancora più a lungo) esse rischiano di acutizzarsi e di scaricarsi sul sistema ospedaliero, verosimilmente già allo stremo per gli effetti della epidemia. D’altro canto, ordinanze che limitano l’orario di apertura dei negozi e le corse dei mezzi pubblici, come si sta proponendo di fare e in alcuni casi si è già fatto, oppure che permettono le passeggiate solo intorno a casa, rischiano di produrre effetti opposti, per esempio concentrando l’accesso del pubblico agli ambienti chiusi negli stessi orari, e le passeggiate proprio nelle zone più abitate. Introdurre precipitosamente restrizioni che magari è necessario togliere dopo poco rischia di indurre la sensazione che l’emergenza sia passata. È anche importante che le disposizioni siano per quanto possibili coerenti. È difficile convincere un operaio che lavora otto ore a un metro di distanza da decine di altre persone in un ambiente chiuso che non corre alcun rischio, e poi dirgli, quando torna a casa (magari dopo aver preso una metropolitana o un treno affollato), che non può fare una corsa in campagna, all’aria aperta e da solo, perché, questo sì, è pericoloso.
Sangue freddo e competenza scientifica. È quantomai necessario più che gli enti locali agiscano in modo coordinato, affidandosi ad una strategia unitaria e quanto più possibile scientificamente informata. Misure improvvisate, a macchia di leopardo, e atteggiamenti inutilmente colpevolizzanti della popolazione non avranno probabilmente effetti significativi sulla diffusione dell’epidemia (anche se probabilmente offrono qualche ora di visibilità sui mezzi di informazione). Dobbiamo ricordare che essa è stata determinata da fattori non controllabili (non possiamo evidentemente ridurre la densità di popolazione, la dimensione delle città o abolire i trasporti) e dal ritardo con il quale gli amministratori di quasi tutti i paesi hanno preso la decisione di chiudere i luoghi pubblici di aggregazione. Il picco di contagi di questi giorni deriva dalla sottovalutazione di quei primi segni (ricordiamo l’opposizione iniziale di tante amministrazioni locali e regionali) all’introduzione di misure restrittive nei confronti di locali pubblici, eventi sportivi di massa ecc. Il picco di contagi (e di conseguenza di ricoveri) che osserviamo in questi giorni deriva in gran parte da quella sottovalutazione iniziale. Lo dimostra il fatto che paesi come la Corea del sud, Singapore e Hong Kong, che hanno preso misure immediate, hanno avuto effetti immediati, con curve di aumento del contagio praticamente piatte invece che drammaticamente impennate. Adesso il bue è scappato dalla stalla, riportarlo dentro richiederà sangue freddo, razionalità e una seria analisi costi benefici. Purtroppo la nostra politica è stata per tanti anni abituata a decidere sulla base dei sondaggi quotidiani, non di una strategia informata di medio e lungo periodo. L’impressione è che anche in questo caso, (con l’eccezione del governo centrale che dopo alcune esitazioni iniziali, sta invece dimostrando un maggior sangue freddo), i pubblici amministratori reagiscano al bollettino medico del giorno, minimizzando quando i numeri erano bassi, e drammatizzando appena un numero aumenta. Un piccolo calo giornaliero dei positivi o dei ricoveri è una buona notizia, ma gli esperti sanno che sono oscillazioni statistiche, e che quel che conta è la tendenza. E che sarà una faccenda lunga. Come in una maratona, non servono continui e inutili scatti, ma darsi un ritmo, poche e facili regole, e prepararsi ad applicarle rigidamente per i prossimi mesi.